sabato 12 maggio 2012

La nozione di impossibile

Qualche mese fa, se non ricordo male nello stage che tenne a Milano nel novembre scorso (per inciso, uno dei raduni e lezioni più belle cui mi sia capitato di assistere), il Maestro Fujimoto ebbe a riprendere alcuni ritardatari  (che per di più indossavano l'hakama).
Non era più da tempo il Fujimoto delle ramanzine furiose e anche un pò estreme.
Con il tempo, e poi con la malattia, era diventato molto più dolce e paterno.
Tuttavia, quei ritardatari erano anche piuttosto rumorosi nell'arrivare, e qualcuno di loro era inoltre salito di soppiatto sul tatami, fatto, questo, tendenzialmente inammissibile e irriguardoso.
Il Maestro allora si rivolse loro riprendendoli, e colse l'occasione per fare di quel momento una lezione nella lezione, una di quelle cose che rendono un Maestro tale.
Dopo averli blandamente richiamati, si rivolse a tutti noi e disse che c'era una differenza tra gli italiani e i giapponesi quando si trovano a fare tardi ad un appuntamento.
I giapponesi, disse, non si giustificano, qualsiasi cosa sia loro successa nel giungere a quell'appuntamento.
Magari, disse il Maestro, gli hanno sparato per strada, o sono stati coinvolti in un maxi tamponamento, ma se loro arrivano in ritardo, come che sia, si profondono in scuse incondizionate, perchè hanno mancato ad un impegno preso.
Perchè sia accaduto non conta niente.
Proseguì invece Fujimoto sensei raccontando che una cosa che lo aveva immediatamente colpito sin dai suoi primi tempi in Italia era la tendenza degli italiani a giustificarsi.
Ho fatto tardi per questo, non sono potuto arrivare per quest'altro.
Lo aveva sempre trovato curioso e, per la sua sensibilità di giapponese, incomprensibile.
Lui disse allora, ad un certo punto, che se avesse detto a tutti noi, in quel momento, che l'indomani mattina, alle cinque, si sarebbe materializzato per un momento e del tutto miracolosamente O sensei in persona, tutti avremmo fatto l'impossibile per esserci, a costo di non dormire, non tornare a casa, o avviarci tre ore prima o anche più da qualunque provenienza.
Un pò scherzava e molto era serio, come era quasi sempre lui.
Ora, al di là della storiella sui giapponesi e gli italiani, e sulla apparizione di O sensei, quello che voleva dire era che di veramente impossibile c'è molto poco, e che la frase "non posso" è una delle più abusate.
Chi vuole davvero praticare (per tornare al nostro contesto, quello nel quale la nozione di impossibilità è tra le più impropriamente richiamate) ha normalmente, e se davvero vuole, certamente la possibilità di farlo.
D'altro canto, ho visto il Maestro allenarsi e tenere stage sino all'ultimo, e soprattutto l'ho visto, oramai del tutto prostrato e divorato dalla malattia (allo stage di Natale del 2011, l'ultimo prima della morte, quando già non era assolutamente in condizione di allenarsi), presentarsi a condurre gli esami da fuori al tatami, e poi, stravolto dal dolore e dalla fatica, consegnare i diplomi ossequiando tutta la cerimonia di consegna, in seiza per almeno trenta minuti, con una dignità e decoro eccezionali.
Quell'uomo stava morendo, lo sapeva perfettamente lui e tutti quelli che gli erano intorno, e tuttavia doveva portare a termine quello che comportava il suo ruolo.
Poteva certamente delegare altri di quella consegna, ma doveva farlo lui.
Posso solo immaginare quanto gli sia costata quella cerimonia e quelle apparizioni a bordo tatami, ma quello che posso dire è che non uso quasi più l'aggettivo "impossibile".
Nè riferito a me, nè riferito agli altri, che spesso lo usano nel parlare con me.
Provo anzi fastidio nel sentire quel termine abusato e inflazionato.
Sentire "non posso perchè mi fa male il braccio", oppure "non posso perchè devo fare questa cosa", e così via.
Fate la prova della apparizione miracolosa di O sensei.
Cosa sareste disposti a fare in quel caso?
Quasi tutto, vero?
Ecco, forse quello è il limite dell'impossibilità.
Dopo di che, possiamo fare o non fare qualcosa, siamo evidentemente liberi di decidere.
Ma dipende da noi, è soltanto una scala di priorità che ci siamo dati.
E il risultato è quello che vogliamo fare, non quello che possiamo.
A presto.